Domenica prossima 3 luglio si correrà la Maratona dles Dolomites ma pochi sanno che la prima edizione della Maratona si corse nel 1987, ma il 3 luglio 1994 è la data che segna il confine tra l’organizzazione pionieristica delle origini e quella attuale, fortemente pervasa dai media e ricca di spunti commerciali. In quella prima domenica di luglio di vent’anni fa si corse la settima edizione della manifestazione, ma in realtà, si trattò della prima Maratona, per così dire, dell’era moderna. La corsa si chiamava ancora Maratona della Dolomiti e non era subentrata l’attuale denominazione ladina, adottata ufficialmente solo un paio d’anni più tardi. Nel 1994, oltre alla popolarità della corsa, anche il numero dei partecipanti conobbe una crescita inusuale. E’ vero che fin dall’esordio, la Maratona ha sempre goduto di interessanti margini di incremento degli iscritti. L’edizione del ’94, però, fu premiata da un vero e proprio boom di partecipanti, saliti a circa 5mila dai 3mila dell’anno precedente. Già parecchi mesi prima dell’evento, quindi, gli organizzatori maturarono la consapevolezza che la Maratona andava gestita sulla base di criteri più vicini a quelli di una corsa professionistica che non di un raduno cicloamatoriale. In questo senso, la prima novità fu quella di spostare la partenza da Pedraces, dove gli spazi erano manifestamente insufficienti a ospitare tanti partenti, e di portarla a Corvara, nella zona dell’attuale punto di arrivo, in quegli anni particolarmente ampia e spaziosa non essendo ancora stato costruito il palazzetto che adesso ospita il pasta party. Come oggi, anche allora la proposta organizzativa si articolava su tre percorsi. Non poteva mancare parte del tradizionale Sella Ronda, affrontato però in senso anti orario dal passo Gardena seguito dal Sella, ma invece di salire sul Pordoi, i percorsi scendevano a Canazei per poi affrontare i tornanti e le gallerie che conducono al passo Fedaia. Ridiscesi nella valle di Livinallongo, i granfondisti prendevano in direzione di Arabba e, dopo l’ascesa al passo Campolongo, completavano la loro fatica sul traguardo di Pedraces (90 km). Per contro, i ciclisti che avevano scelto il percorso medio o lungo, alla biforcazione di la Villa prendevano la destra e salivano il passo Valparola, al termine del quale il percorso medio scendeva dal Falzarago e ripeteva l’ultima parte di Arabba e Campalongo (km 140). Idem quelli del lungo ma prima scendevano in direzione Cortina per poi risalire il passo Giau e Santa Lucia (il contrario di come è oggi), prima di ripetere l’ultima parte comune ai 3 percorsi fino a Pedraces (km 180). In quell’anno, ricordo che gli organizzatori allestirono un sistema di controlli molto minuziosi con l’obiettivo di sanare un paio di situazioni piuttosto delicate. La prima riguardava l’incolumità dei corridori, che venne salvaguardata con apprezzabile solerzia non solo cercando di ridurre il più possibile il traffico automobilistico lungo le strade della manifestazione, ma arrivando a escludere dalla corsa gli atleti privi di casco rigido, che, una trentina d’anni fa, erano ben più numerosi di quanto si possa immaginare. Inoltre, la squalifica colpì anche i ciclisti, allora non così rari, che, senza propositi truffaldini, ma solo perché consapevoli di poter contare su una preparazione atletica approssimativa, evitavano la partenza ufficiale avviandosi sul percorso con abbondante anticipo. Tant’è che il vincitore di quell’anno, il bolognese Giuliano Anderlini, se ne trovò davanti fino a circa il cinquantesimo chilometro di gara, con tutti i rischi e gli imbarazzi che situazioni del genere si portano dietro. Del resto, il granfondismo d’altri tempi era anche questo.

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