Rebellin, ultima vittima di una strage infinita

Nel pomeriggio del 30 novembre, la notizia della tragica scomparsa di Davide Rebellin è montata sui social come una marea. Accompagnata da un dolore fortissimo, perché nella sua lunga carriera il veneto aveva saputo superare mille difficoltà guadagnandosi la stima del movimento e soprattutto della gente, del vasto popolo degli appassionati.

Quel dolore si è presto accompagnato alla rabbia, vedendo la foto della sua bici accartocciata, sapendo del comportamento abbietto del camionista tedesco pluri recidivo sceso dall’abitacolo e scappato via vedendolo rantolare a terra. Il caso di Rebellin è solo l’ultimo di una falcidia che anno dopo anno toglie violentemente dalla strada decine, centinaia di ciclisti. Una mattanza che non ha fine e di fronte alla quale nessuno, fra coloro che decidono, fa nulla.

Si parla nei telegiornali di morti sul lavoro, di femminicidi: i numeri delle morti sulle strade sono anche maggiori, ma trovano spazio sui media quando a morire è qualcuno di conosciuto, ieri Michele Scarponi, oggi Davide Rebellin. In mezzo tantissimi ragazzi, amatori, semplici cittadini che avevano scelto il mezzo più ecologico per spostarsi, il più bello, il più indifeso. Che cosa si potrebbe fare? Tanto! Allargare la rete di piste ciclabili, ad esempio, costruendole però a ragion veduta e non, come capitato da molte parti, semplicemente per dare la commessa all’azienda di turno e mettere in tasca un po’ di fondi…

Due: aumentare i controlli e attribuire pene più severe e certe a chi sgarra: chi guida col telefonino in mano; chi parcheggia proprio sulle piste ciclabili; chi sorpassa infischiandosene delle pur insufficienti norme di sicurezza (come il metro e mezzo di distanza dai ciclisti). Molti, a commento della morte di Rebellin, hanno sentenziato “sì, ma i ciclisti dovrebbero dotarsi di mezzi e abbigliamento catarifrangente, dovrebbero stare in fila indiana, dovrebbero evitare di passare sempre col rosso al semaforo”. Dimenticando che la maggior parte delle morti avviene quando il ciclista è solo. Come Scarponi. Come Rebellin.

Un destino atroce e beffardo, quello del corridore veneto che aveva chiuso quest’anno la sua carriera toccando il record di 51 anni, il professionista più anziano in attività. L’ultima gara era stata domenica a Montecarlo, nel criterium di beneficenza con i tanti campioni di oggi e di ieri. Lui e Gilbert erano stati i più acclamati, proprio perché avrebbero chiuso la propria storia ciclistica. Ma non avrebbero di certo chiuso in cantina la compagna di tanti anni… la bici

Apprendendo della sua scomparsa, risuonava nella mente la sua confessione a cuore aperto di solo qualche settimana prima, quando ripercorrendo la sua carriera si riparlava del caso di doping che l’aveva privato della medaglia d’argento olimpica di Pechino 2008. Mesi dopo Rebellin era stato prosciolto in sede giuridica da ogni accusa, ma quella medaglia non gli era stata più restituita e facendogli notare la cosa aveva risposto candidamente: “Dovrei intentare un’altra causa e non ho i soldi, la vicenda mi ha economicamente prosciugato e per certi versi mi ha anche costretto a continuare. Non potrei pagarmi un’altra volta l’avvocato. Anche se non ce l’ho materialmente, io quella medaglia la sento comunque mia”. Forse fare qualcosa in tal senso sarebbe un giusto tributo nei confronti del suo tragico epilogo.

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