Un Primario ospedaliero bergamasco alla Maratona

Una frase pronunciata da Michil Costa, presidente del CO della Maratona dles Dolomites mi colpisce: “il tempo di ritrovare noi stessi”. Sono in griglia sono le sei di mattina e ho freddo. Mi riparo nella mia vecchia giacca di Goretex che avevo comprato anni fa. Forse non è solo il freddo ma l’emozione di ritrovarmi con un numero dopo anni. L’ultima volta era una gara di triathlon, poi l’incidente al ginocchio mi ha costretto alla resa dallo sport attivo, e l’anno scorso il COVID, mi ha messo alle corde. Un misto di emozione, e mi chiedo ancora cosa ci faccio alla mia età a una partenza di una gara. Il sole fa capolino e illumina le lamine di dolomia del Pares incorniciato da nuvole, ci annuncia una giornata senza pioggia nonostante le previsioni. 

Intorno altri ciclisti, tutti attenti nel limite del possibile, con le mascherine che nascondono il viso cercano di tenere le distanze richieste. La benedizione del parroco, alcune interviste e un orchestra di fiati comincia a suonare: è ora di togliere la mantellina e scoprire il viso.  Si parte, l’emozione aumenta e non riesco a respirare, credo di essermi allenato, eppure non riesco a respirare. Pedalo, cerco di mantenere una pedalata agile pensando che forse mi devo solo scaldare. Nella testa frullano i pensieri, scalo rapporti e cerco di fare il possibile. Mi accorgo di avere ancora la catena sul “padellone”, e forse questo peggiora i miei sforzi mentre ci avviciniamo al passaggio su Corvara. 

L’ascesa al Campolongo la passo cercando di trovare un ritmo e provando a respirare, forse non avevo fatto il conto con l’altitudine. Ho nel petto un bruciore e vorrei fermarmi e tornare indietro, non credo di riuscire a gareggiare, eppure non mi arrendo, scalo e pedalo sempre più agile. Intorno non senti una parola, non so in quanti siamo su questa salita, ma solo respiri affannati e lo spiffero di migliaia di ruote che salgono, solcando l’asfalto. Nessuno parla, quasi un silenzio religioso. Ogni tanto alzo la testa e guardo le montagne belle nella loro eleganza. Le rocce quasi prepotenti si innalzano verso il cielo e verso il paradiso. Vorrei aver con me i miei amici di sempre con cui pedalo. I miei compagni di avventura con cui ho condiviso molte uscite, grandi cene, risate e bevute. Alcuni di loro a Marzo 2020 quasi ci hanno “salutato”, erano a casa con la polmonite, non respiravano. Mi sento come un reduce di guerra, ho soccorso tre ondate in Ospedale, gli amici a casa e ora mi ritrovo stanco, con il bisogno di evadere e ritrovare me stesso. La mente va a quei giorni, alle facce delle persone sotto un casco, alla frenesia di cercare un posto letto e una cura che funzionasse, alla gente di ogni età che non ce l’ha fatta. A chi ha messo del suo e ha fatto il suo dovere per soccorrere chi stava male. Ci hanno definito eroi, ma noi non siamo eroi, abbiamo fatto il nostro dovere. Continuo a pedalare, e a ricordare, come quando ho avuto la febbre e mi sono dovuto fermare, o quando non respiravo come ora per la polmonite. Mi dico “Calma Andrea, devi solo trovare regolarità e semplicità nella pedalata”. 

Siamo in cima al Campolongo, mi fermo un attimo e riparto. Finalmente una discesa senza traffico, fa freddo ma la mia mantellina mi protegge e i guanti invernali evitano che si gelino le mani. Posso finalmente pennellare le curve e rilanciare la bici. Quanto tempo che non osavo un po’ in discesa. Mi diverto, tutti si comportano bene e si può scendere in sicurezza fino ad Arabba.

Di nuovo in salita: il Pordoi, una salita lunga. Trovo il mio ritmo, la mia dimensione e finalmente la mente evade, vaga riesce ad estraniarsi, passa l’ansia e tutto diviene più regolare. Non credo di aver pensato a molto, ma sono ritornate le immagini di un anno, di pazienti, di amici, di eventi. Sono in una specie di catarsi, e la vista intorno è spettacolare, vengo rapito dalla bellezza di questi posti, intanto intorno a me diminuiscono le persone che passano veloci, e saliamo in gruppo, con un ritmo comune, compatti. La fratellanza del ciclismo e della fatica. Insieme è più facile, ogni tanto qualcuno si ritrova e si saluta. Quanto mi è mancato tutto questo. La nostra normale vita di prima che fino a qualche anno fa consideravamo normale, ora è uno spettacolo. Si può pedalare insieme in un paese che rinasce. Una vita “dettata” dalla pedalata. Penso che dobbiamo fare in fretta a vaccinare tutti, l’unica possibilità per eliminare il virus dall’ambiente ed evitare mutazioni e cambi faccia per non ricominciare in autunno. Sono state dette e scritte troppe stupidate sui vaccini, rimangono l’unica nostra possibilità per tornare alla normalità!

Ora la testa è leggera, e le pedalate sono più efficienti. Un pensiero va a lei, che mi aspetta. Finalmente in discesa e di nuovo la sala giochi dei lunghi tornanti e della velocità verso Canazei.

A metà discesa eò, svolta a destra e inizia una nuova salita il passo Sella, ci fermiamo dopo pochi metri per il ristoro, e poi si riparte. Mi ricordo questa salita perché l’avevo fatta da bambino. Allora in famiglia amavamo il campeggio ed avevamo una roulotte. Mia mamma aveva deciso di farci visitare le dolomiti e nell’itinerario ricordo ci fosse anche il passo Sella. Avevamo una 124 special, mio papà guidava l’avventura. Il motore rombava e cercava di tenere alti i giri per poter trainare il suo fardello. Noi ragazzini eravamo dietro e ogni tanto mio papà si fermava per far passare le macchine e non formare una colonna. Noi ridevamo e salutavamo le altre macchine, giocando con le targhe cercando di capire da dove venissero. Allora c’erano ancora le sigle delle province, mia mamma ci correggeva. Quando incontravamo una macchina tedesca o austriaca, inventavamo il nome della città, provocando l’ilarità di tutti. Arrivati in cima, noi ci precipitammo al rifugio per comprare lo scudetto adesivo da attaccarlo alla facciata posteriore della roulotte, come trofeo della conquista. Mio padre beveva un caffè e mia madre ci rincorreva per coprirci perché faceva freddo e non voleva che ci ammalassimo. 

Mio padre ora non c’è più, è morto a dicembre. E’ voluto morire a casa tra le braccia di sua moglie, e io non ho potuto fare nulla. Non ho nemmeno insistito per portarlo da me in ospedale, perché sarebbe rimasto solo in quel momento. Scopro che mi manca, era un uomo forte e coraggioso, ma alla fine era diventato un cucciolo indifeso. Ciao grande uomo, amante della cultura e del bene pubblico. Mi hai insegnato che in fondo quello che resta di noi è il bene che facciamo per gli altri. Ti dedico questa salita e ti immagino che sorridi da lassù mentre mi guardi salire. Il ciclismo gli piaceva.

Non si fa a tempo a scendere dai “drittoni” del Sella che si ricomincia a salire, ora è il passo Gardena. Mi ricorda quando anni fa correvo da queste parti in mountain bike e mia figlia era piccola. Quando rientravo al pomeriggio stremato in albergo mi salutava tutta festante e contenta. Mi chiedeva se fossi arrivato primo e le rispondevo “sì, nei primi 1000”. Allora lei un po’ si corrucciava e mi chiedeva quando le avrei portato a casa una medaglia. Quindi la disegnavamo insieme su un pezzo di carta che poi la mettevamo al collo e ridevamo felici. Ora ha 22 anni ed è una donna. Sono orgoglioso di come sta studiando e preparandosi alla vita. Recentemente abbiamo discusso per il suo desiderio di molteplici vacanze. Non sempre è facile far quadrare il bilancio familiare e non sempre è semplice dire di no. Le ho chiesto di riflettere, abbiamo litigato un poco ma capirà. L’avrei voluta avere all’arrivo per ridere e scherzarci un po’ sopra con lei. 

Si scende verso Corvara, sono intenzionato a proseguire per il medio, ma il mio intestino che mi ha tormentato tutta la notte ricomincia a brontolare. Svolto a destra, passo l’arrivo e decido di fermarmi.

Questa esperienza mi ha in qualche modo sconvolto, troppe emozioni, troppi pensieri. Come un grande vino mi ha inebriato e decido di fermarmi perché resti quel buon sapore in bocca, non voglio ubriacarmi, almeno non oggi. Questa gara mi ha dato molto, mi ha permesso nel corso della preparazione di recuperare una parte della mia condizione fisica, sono calato circa 6 kg e il fiato va meglio. La pressione non fa più le bizze e dormo meglio. Ognuno pedala per un motivo, io probabilmente perché mi permette di estraniarmi dal mio mondo ospedaliero e di tornare ancora libero con la mente in quelle ore di faticoso svago.

Un pensiero va a Giancarlo che doveva essere qui con me, ma non ha ancora completato il recupero dal Covid e non può ancora faticare troppo. Un pensiero a Paolo che mi ha spronato, mi ha dato tutto le indicazioni e ha permesso tutto questo. Arrivederci Dolomiti, penso che presto verrò a pedalare coi miei amici e compagni di merende, ancora tutti insieme per scherzare e ridere e ritrovare la precedente qualità di vita.

credito foto Sendgrid, Altabadia.org

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